Previdenza

 

Politica d’investimento: multi-comparto o multi-nome?

12 Mar, 2014

Politica d’investimento: multi-comparto o multi-nome?

12 Mar, 2014

Pasquale Merella, FRM

4 min read

Intervento sul dibattito relativo al Documento sulla Politica di Investimento dei Fondi Pensione – pubblicato da Previnforma.
La principale domanda è: “I Fondi pensione conoscono le aspettative dei loro aderenti?”

Link: http://www.previnforma.it/lab/2014/03/politica-dinvestimento-multi-comparto-o-multi-nome/

Nel panorama dei Fondi pensione i temi principali del dibattito riguardano principalmente la versione finale dello schema di modifica del famoso decreto 703/96, tornato in auge dopo il parere del Consiglio di Stato, e la conseguente forma che dovrà assumere il Documento sulla politica di investimento (Dpi) che i Fondi sono tenuti a redigere.

Da una parte si definisce l’universo investibile e il perimetro entro il quale i Fondi sono autorizzati a muoversi, dall’altra si definisce come i Fondi si devono muovere tramite un documento del quale non si comprende bene chi sia il destinatario, ma ad una più attenta lettura si capisce che i veri destinatari sono i Fondi stessi.

Il Dpi suona come un’assunzione di responsabilità e di consapevolezza delle scelte di governace e di investimento di cui il Fondo intende dotarsi. La Covip, in qualità di regulator, pone l’accento sulle risorse del Fondo coinvolte nel processo di selezione e gestione finanziaria legando le capabilities interne alla possibilità di offrire una gestione più diversificata rispetto ai noti Btp. La domanda è semplice, quali sono i criteri e chi “certifica” le adeguate competenze richieste?

Il Dpi offre un importante momento di riflessione: i Fondi pensione hanno il compito di perseguire un obiettivo previdenziale (dei propri associati), quindi non puramente finanziario. Ecco perché si parla di bisogno previdenziale. La definizione dell’Asset allocation strategica non può prescindere da un’analisi della popolazione. Dalla lettura di tutti i Dpi realizzati dai Fondi emerge una preoccupante constatazione: manca uno studio sulla popolazione interessata al Fondo. Ancora una volta i Fondi non si mostrano sensibili alla necessità di attrarre nuovi iscritti. Si sottovaluta insomma quanto la comunicazione possa creare valore.

Se guardiamo alle Asset allocation proposte dai Fondi pensione negoziali noteremo che è alquanto popolare un classico 70% obbligazioni e 30% azioni, dove le gestioni multi-comparto finiscono semplicemente per essere “multi-nome”. Questo cosa significa? Che il Fondo o l’advisor hanno utilizzato un unico “individuo-tipo” per tutti i comparti? Che l’unica Asset allocation che il Consiglio di amministrazione del Fondo percepisce è un “70-30”?

La diversità dei comparti offerti dai Fondi deve essere legata alle differenti aspettative degli aderenti. Nella definizione dell’Asset allocation risulta critica la scelta dei rendimenti attesi e delle volatilità delle diverse asset class unitamente a un’analisi di short-fall da inserire nel Dpi appunto. Un metodo innovativo e utile è quello di utilizzare un consensus sui rendimenti attesi. Una sorta di “Euribor” dei rendimenti attesi dalle principali case di gestione in tutto il mondo. Tale strumento, opportunamente aggiornato, permetterebbe di avere gratuitamente l’expertise di tutta la ricerca delle case di gestione utilizzata nella formazione delle view di mercato e quindi sintetizzata nei rendimenti attesi.

Mefop, nel suo incontro dedicato alla review dei Dpi su un ampio campione dei Fondi pensione negoziali, ha registrato l’assenza di una specificazione sulla metodologia e formazione delle stime sui rendimenti attesi. Spesso, quando indicato, si sono utilizzati semplicemente i rendimenti storici, ma tale scelta non appare molto corretta dal punto di vista finanziario. Il professor Corvino, intervenendo all’evento di Mefop in tema di Dpi, ha posto l’attenzione sul fatto che il mondo finanziario è cambiato notevolmente. Il dogma che le azioni paghino sempre nel lungo periodo non sembra più vero (si veda evoluzione Eurostoxx negli ultimi decenni – fonte Bloomberg).

EuroStoxx

 

In un mondo fatto di mercati prevedibili l’utilizzo di serie storiche per la stima dei rendimenti attesi può risultare adeguato. Oggi basta osservare le modifiche attuate nella politica monetaria di Draghi: siamo destinati ad avere bassi tassi nel lungo periodo.

Il mondo si presenta ai nostri occhi incerto e volatile; alla luce di questo l’utilizzo del benchmark come impostazione di Asset allocation e di controllo risulta fortemente antiquato. Il benchmark è coerente con gli obiettivi previdenziali? Sorge anche un problema di competenza: conosciamo bene i nostri aderenti? Potremmo scoprire che non c’è nessuno che voglia il famoso ‘”70-30”.

Una nuova prospettiva si apre al dibattito: vogliamo davvero caricare il Consiglio di Amministrazione dei Fondi della responsabilità di definire il benchmark da utilizzare, oppure è meglio individuare un obiettivo di return (ad esempio, un inflation plus) lasciando ai professionisti del risparmio (previdenziale) gestito la scelta di un’Asset Allocation adeguata ai profili di rendimento-rischio del Fondo pensione?

La diversificazione rimane comunque un principio inviolabile, ma per farla seriamente sono necessarie masse consistenti da destinare alle gestioni. Neanche il Fondo pensione Cometa, il più grande, può in realtà ambire ad avere una vera diversificazione degli attivi; il professor Corvino stima che sia necessario avere una massa di minino venti miliardi di euro. Questa constatazione apre la discussione su due fronti: da una parte si potrebbero utilizzare degli Organismi d’investimento collettivo del risparmio (Oicr) che presentino un look-through della loro composizione (da scegliersi quelli con replica fisica) e dall’altra si potrebbero avviare delle fusioni tra Fondi pensione che operano in settori simili al fine di ottenere vantaggiose economie di scala declinabili in potenziamento della struttura e della professionalità interna. Si farà mai qualcosa di tutto questo?